Corrisponde al tipo 425 nella classificazione Aarne-Thompson (la ricerca del marito perduto): è la classica fiaba di “Amore e Psiche”. In particolare, questa variante, corrisponde al sotto-tipo 425A (il mostro – o animale – sposo). Vi compare il motivo H1385.4 (la ricerca del marito scomparso) dell’indice dei motivi del Thompson. La fiaba ha molte caratteristiche in comune con numerose storie ad essa apparentate. Innanzi tutto, con il tipo 552 (i cognati animali), in cui compare il tema del padre costretto a concedere la figlia in moglie a un animale per evitare la rovina finanziaria. La ricerca del marito perduto ha una sua controparte “al maschile” nel tipo 400, in cui è un uomo a cercare la moglie perduta. Le vicende che compaiono al termine della storia, con la donna che cerca di far riacquistare la memoria al marito che l’ha scordata, presentano numerosi punti di contatto con il tipo 313C (la fidanzata dimenticata). In certi casi, a mo’ di introduzione della fiaba, si trova il tipo 621 (pelle di pidocchio), in cui il re promette in sposa la figlia a colui che saprà indovinare a quale animale appartiene una certa pelle. Infine, va ricordato che il marito misterioso e la violazione di un tabù sono elementi centrali anche nei tipi 311 e 312, corrispondenti alla storia di Barbablù: una storia che ha comunque uno sviluppo differente, in quanto il marito si rivela malvagio e cerca di uccidere la moglie.
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In tutte le versioni della fiaba, compare una fanciulla che, per un motivo o per l’altro, va in sposa a un mostro (o a un animale, o a un essere misterioso). Talvolta, l’obbligo di sposare il mostro dipende da un desiderio espresso in maniera troppo frettolosa dai genitori. Solitamente, il marito ha sembianze mostruose (o animalesche) solo di giorno, e di notte riprende il suo aspetto umano. In molte versioni, il padre della ragazza promette la figlia in sposa al mostro perché è caduto in suo potere, e solo così può riacquistare la propria libertà. In altri casi, prima che lui partisse per un viaggio, la figlia gli aveva chiesto in dono un oggetto inusuale, e per poterselo procurare è costretto a cedere alla richiesta del mostro che gli chiede la ragazza in moglie. A questo punto, in tutte le versioni la ragazza è costretta a sposarsi con quello che è stato presentato come un mostro, un animale, o un essere disgustoso: e però, piano piano ella accetta la situazione e impara ad amare l’insolito marito. Spesso, la vita della coppia si svolge nello sfarzo e tra grandi comodità. La donna inizia a concepire il desiderio di liberare il marito dalla maledizione che l’ha colpito, in modo da poter continuare la vita matrimoniale nella normalità. In alcune versioni, la donna riesce a sciogliere lo sposo dall’incantesimo, baciandolo, o bruciandogli la pelle animale, oppure con le lacrime. In molti casi, però, ella perde il marito soprannaturale, perché infrange un tabù o comunque omette di obbedire a determinate istruzioni. Per esempio, brucia prima del tempo la pelle animale, oppure rivela ad altri il segreto del doppio aspetto del marito (mostro-uomo). Nel caso di questa variante pugliese, esattamente come succede nel mito classico di Amore e Psiche, la donna non ottempera alla prescrizione di rimanere al buio e conseguentemente di non vedere il vero aspetto del marito. Nel momento in cui ella viola il tabù, il marito scompare. In certi casi, però, le lascia delle indicazioni molto vaghe su come ella potrà ritrovarlo. La protagonista a questo punto intraprende una lunga e faticosa peregrinazione, calzando a volte delle scarpe di ferro (così come avviene nella versione pugliese), che dovranno consumarsi affinché il viaggio possa avere termine. In certi casi, riceve dei doni magici da una vecchia, o da tre vecchie incontrate sul suo cammino (nella versione pugliese in esame, è un vecchio). In altri casi, ottiene l’aiuto da forze naturali personificate (il vento o le stelle). Finalmente, dopo varie peripezie, ritrova il marito, e però in molte versioni deve strapparlo alla donna che egli sta per sposare, e soprattutto deve farsi riconoscere da lui, giacché egli l’ha dimenticata. Per ottenere questo scopo, a volte si adatta a servire come cameriera nel palazzo della donna che gli ha sottratto il marito, e con tre gioielli si guadagna il diritto di dormire per tre notti a fianco dell’uomo (nella storia pugliese in esame, dorme sotto il suo letto). La storia, in tutte le sue versioni, si chiude con il felice ricongiungimento della coppia e con un secondo matrimonio. Per rimanere sul fronte della fortuna letteraria di questo tipo fiabesco, va ricordato che ad esso appartiene anche il sottotipo 425C, ovvero la classica storia della “Bella e la Bestia”: un racconto che ha un’innegabile origine letteraria, dal momento che le versioni popolari sono derivate chiaramente dalla nota storia La belle et la Bête (1757) di Marie Leprince de Beaumont, la quale, comunque, rielaborò un racconto di Madame de Villeneuve, Histoire de la Bête (1740). Quest’ultima, a sua volta, riutilizzò la fiaba di Madame D’Aulnoy Le Mouton (1698). Diversi sono stati gli studi e le analisi critiche, storiche e filologiche sul tipo fiabesco di Amore e Psiche. Ernst Tegethoff nel suo Studien zum Märchentypus von Amor und Psyche (Bonn e Leipzig, 1922) raccoglie ed analizza una gran quantità di materiale, formulando poi la conclusione, a dire il vero abbastanza discutibile, che la fiaba nasce da un’esperienza onirica, riducendosi al sogno di una ragazza, andata in sposa a un marito orrendo, che sognava un amante bellissimo e che fu svegliata bruscamente da qualcuno entrato nella sua stanza con un lume acceso. Appare, però, perlomeno pretenzioso voler ricostruire la supposta forma originaria della fiaba, riconducendola a un particolare stato psicologico di colui che presumibilmente la raccontò per primo. Più fondata e più convincente l’analisi di Jan-Oivind Swahn, che nella sua importante monografia, The tale of Cupid and Psyche (Lund, 1955), innanzi tutto dimostra che l’episodio in cui la fanciulla arriva dalla maga (o dall’orca) e questa la sottopone a difficili prove è erroneamente considerato da Aarne e Thompson come un tipo autonomo (il tipo 428: il lupo), ed è in effetti parte integrante della fiaba di Amore e Psiche. Swahn poi riesce a dimostrare che questo tipo fiabesco non è derivato dal racconto di Apuleio, ma da un’autonoma tradizione folklorica, come provato dalla mancanza nella redazione dello scrittore latino di elementi che si trovano invece nella narrativa popolare. Soprattutto, in questa monografia, l’autore non cerca di ricostruire la forma originaria del racconto (così come fa, invece, la scuola finnica), ma analizza dettagliatamente e minuziosamente i diversi sottotipi, arrivando a classificarne quattordici (per un totale di 1040 versioni). Va ricordato, poi, che Propp legge la fiaba come testimonianza e relitto dei rituali di iniziazione alla maturità sessuale e di introduzione alla vita matrimoniale per le ragazze (V. J. PROPP, Istoričeskie korni volšebnoj skazki, Leningrad, 1946, Cap. 4, par. I.11).
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Per il folklorista Come ricordato, la storia è stata raccontata come fiaba di “Amore e Psiche” già da Apuleio, ne Le metamorfosi, nel II secolo d. C.: va comunque precisato che questa versione classica sicuramente non è la forma originaria della fiaba, e che Apuleio ha certamente rielaborato una tradizione narrativa a lui precedente. La fiaba viene inoltre raccontata sotto la forma del “marito animale” dallo Straparola, che nelle sue Piacevoli notti narra la storia del “re porco” (II, 1) Compare poi in più d’una forma nel Pentamerone. Innanzi tutto, va osservato che la stessa storia che fa da cornice narrativa al libro del Basile corrisponde a una forma particolare della fiaba del marito perduto (precisamente, corrisponde al sottotipo 425G). La protagonista dell’introduzione del Pentamerone è Zoza, una principessa che non ride mai: costei, a causa della maledizione lanciatale da una vecchia, parte alla ricerca del principe di Camporotondo, che, per l’incantesimo di una fata, è condannato a un sonno eterno, e potrà risvegliarsi solo se una donna riempirà con le proprie lacrime una brocca. La fanciulla riesce nell’impresa, ma stremata per lo sforzo si addormenta, e una schiava mora le sottrae con l’inganno il marito, facendo credere a quest’ultimo di essere stata lei a risvegliarlo con le proprie lacrime. Il principe si sposa quindi con la schiava mora, ma la protagonista, grazie a tre doni magici ricevuti da tre fate, riesce a fare in modo che l’uomo convochi a palazzo dieci donne, che racconteranno una fiaba per ciascuna, per cinque giorni di seguito. Vengono così raccontate le cinquanta storie che compongono il Pentamerone: l’ultima storia viene raccontata dalla protagonista, che narra le proprie vicende, svelando così l’inganno della schiava. Come si può notare, questa particolare forma del tipo 425 si intreccia con elementi e con temi che si possono ritrovare anche in altri tipi fiabeschi. In primo luogo, l’elemento della principessa che non ride è caratteristico dei tipi 559 (lo scarabeo stercorario) e 571 (per far ridere la principessa: tutti appiccicati insieme). La maledizione della vecchia, a partire dalla quale si dipana la ricerca del marito incantato, è un elemento che compare spesso nel tipo 310 (la principessa nella torre), sia pure a ruoli invertiti: un principe riceve una maledizione, a causa della quale si lancia alla ricerca della fanciulla prigioniera di un’orca. La maledizione della vecchia può apparire anche in alcune varianti del tipo 408 (le tre melarance). Infine, il tema della sostituzione della sposa è l’elemento centrale del tipo 403 (la sposa nera e quella bianca), oltre a comparire nei tipi 408 (le tre melarance), 450 (fratellino e sorellina), 533 (la testa di cavallo parlante). Ma, come già detto, la storia di “Amore e Psiche” viene raccontata, oltre alla cornice narrativa, più d’una volta nel Pentamerone. Innanzi tutto, compare come “cunto” del “Catenaccio” (II, 9): qui, la più piccola di tre figlie viene condotta da uno schiavo in un palazzo meraviglioso, dove nottetempo un essere misterioso si corica con lei. Mal consigliata dalle sorelle, viene presa dalla curiosità di vedere la persona che dorme ogni notte con lei, e scopre che è un bellissimo giovane. Costui però si sveglia, e - accortosi di essere stato visto - la caccia via. Dopo diverse peregrinazioni, la fanciulla torna a casa del marito e si ricongiunge con lui. Nel “cunto” di “Pinto Smalto” (V, 3), compare una curiosa forma di “marito soprannaturale”: la protagonista, Betta, si crea da sola un bellissimo marito, con la pasta di mandorle e lo zucchero. Una regina, invidiosa, glie lo sottrae. Betta, grazie a tre gioielli, ottiene dalla regina di poter dormire per tre notti di seguito con Pinto Smalto. La regina, però, per impedire che Pinto Smalto riconosca Betta, lo droga, facendolo cadere in un sonno profondo. La terza notte, però, Pinto Smalto non beve il sonnifero, e così i due protagonisti possono ricongiungersi. Infine, nel “cunto” del “Ceppo d’oro” (V, 4), la perdita del marito incantato avviene nello stesso modo in cui viene raccontata in “Amore e Psiche”: la protagonista, Parmetella, viene presa dal desiderio di vedere chi è il misterioso personaggio che dorme con lei, accende una candela e vede che colui che giace al suo fianco è un bellissimo giovane, il quale però si sveglia, e lanciatale una maledizione scompare. La ragazza parte alla ricerca del marito perduto, e dopo aver consumato sette paia di scarpe di ferro in sette anni lo ritrova. Costui però è figlio di un’orca, la quale assegna alla ragazza una serie di compiti impossibili. La ragazza riesce a portare a termine le prove imposte, e alla fine si ricongiunge col marito. Una ragazza che, avendo infranto una promessa, rischia di perdere il marito si trova pure nel “cunto” della “Faccia di capra” (I, 8): questa fiaba, però, pur avendo significativi punti di contatto con il tipo 425 (in primo luogo, per l’appunto, il tema della rottura del tabù), rappresenta una variante particolare del tipo 710 (la protetta della Vergine). Parliamo di variante particolare, dal momento che nella forma classica la fiaba ha uno sfondo religioso: colei che prima accoglie sotto la sua protezione la protagonista e poi la maledice è infatti la Madonna. Nella versione del Basile, invece, la protettrice magica è una fata, che per punire la protagonista della sua ingratitudine le trasforma il volto, facendole assumere le fattezze di una capra. Per quanto riguarda la diffusione del tipo narrativo nella tradizione folklorica, esso è raccontato in ogni parte d’Europa, ed è popolare soprattutto nella parte occidentale del continente, dove parecchi paesi hanno fatto registrare più di cinquanta versioni. La versione raccolta dai Grimm, in particolare, presenta un estremo di disumanizzazione del marito incantato, il quale diviene addirittura un oggetto inanimato (un forno). La storia fa apparizioni poco frequenti nel Vicino Oriente e in India. È raccontata anche dagli Zuñi del Nuovo Messico. È stata raccolta fra i coloni francesi del Missouri e fra la popolazione di colore della Giamaica. In Italia, se ne sono raccolte sessantuno varianti orali, sulle quali hanno sicuramente esercitato una certa influenza le versioni letterarie di Apuleio, di Straparola e di Basile. Nella tradizione narrativa italiana, in particolare, sono diffusissime le forme in cui il marito incantato è un animale, in particolare un porco (come nella versione già ricordata dello Straparola). In certe varianti, però, il principe-animale può essere un serpente, un orso, un corvo, un cavallo, un rospo, un ragno, un granchio, un drago. In diverse tradizioni regionali compare pure la versione del principe addormentato che può essere svegliato solo con le lacrime, che abbiamo incontrato nell’introduzione del Pentamerone. In Italia settentrionale e centrale (ma anche in Sardegna e in Sicilia) ha pure una certa diffusione la forma della “Bella e la Bestia”. In Abruzzo e in Calabria è raccontata la versione del marito impastato con la farina (che abbiamo già incontrato nel “Pinto Smalto” di Basile). In alcune varianti delle regioni meridionali (e soprattutto in Sicilia) è diffuso il motivo della madre che impedisce il parto finché non mette le mani sulla testa, o finché tiene le mani giunte fra le ginocchia: un elemento che compare già nel mito della nascita di Ercole, e che corrisponde a una antica superstizione greca (si veda la nota del Köhler alla n. 13 della raccolta della Gonzenbach). Significative corrispondenze con queste versioni siciliane si possono ritrovare in alcune versioni neogreche (R. M. DAWKINS, Modern Greek Folktales, Oxford, 1953, p. 61; ID., Forty-five Stories from the Dodekanese, Cambridge, 1950, p. 222).
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